lunedì 31 ottobre 2016

IL GIORNO DEI DEFUNTI IN CALABRIA

IL GIORNO DEI DEFUNTI IN CALABRIA
Un tempo per i Calabresi il giorno dei morti era un giorno davvero speciale, per i bimbi era ricco di attesa e dolci sorprese!







La globalizzazione oramai sta rendendo più onore ad Halloween dimenticando la tradizione che invece ci appartiene e dobbiamo impegnarci a conservare e a tramandare, per questo Polistena Vintage ha deciso di raccontare la magica atmosfera del giorno dei morti per i Calabresi.
Nella nottata che passava tra il primo e il due di novembre, ogni casa Calabrese dove c’era un picciridu si popolava di morti a lui familiari. Non fantasmi cu linzòlo bianco e con lo scrùscio di catene, si badi bene, non quelli che fanno spavento, ma tali e quali si vedevano nelle fotografie esposte in salotto, consunti, il mezzo sorriso d’occasione stampato sulla faccia, il vestito buono stirato a regola d’arte, non facevano nessuna differenza coi vivi. Noi picciridi, prima di andarci a coricare, mettevamo sotto il letto un cesto di vimini (la grandezza variava a seconda dei soldi che c’erano in famiglia) che nottetempo i cari morti avrebbero riempito di dolci e di regali che avremmo trovato il 2 mattina, al risveglio.
Eccitati, sudatizzi, faticavamo a pigliare sonno: volevamo vederli, i nostri morti, mentre con passo leggero venivano al letto, ci facevano una carezza, si calavano a pigliare il cesto. Dopo un sonno agitato ci svegliavamo all'alba per andare alla cerca. Perché i morti avevano voglia di giocare con noi, di darci spasso, e perciò il cesto non lo rimettevano dove l’avevano trovato, ma andavano a nasconderlo accuratamente, bisognava cercarlo casa casa. In quel periodo, molti provarono il batticuore della trovatura quando sopra un armadio o una porta scoprivano  il cesto stracolmo. I giocattoli erano trenini di latta, automobiline di legno, bambole di pezza, cubi di legno che formavano paesaggi.
I dolci erano quelli rituali, detti “dei morti”: marzapane modellato e dipinto da sembrare frutta, “rami di meli” fatti di farina e miele, “mustazzola” di vino cotto e altre delizie come biscotti di miele anzuda  altre a  forme di taralle . Non mancava mai il “pupazzo  di zucchero” che in genere raffigurava un bersagliere  con la tromba in bocca o una coloratissima ballerina in un passo di danza. A un certo momento della matinata, pettinati e col vestito in ordine, andavamo con la famiglia al camposanto a salutare e a ringraziare i morti. Per noi picciridi era una festa, sciamavamo lungo i viottoli per incontrarci con gli amici, i compagni di scuola: «Che ti portarono quest’anno i morti?». 
Insomma il 2 di novembre ricambiavamo la visita che i morti ci avevano fatto il giorno avanti: non era un rito, ma un’affettuosa consuetudine.
Poi, arrivò l’albero di Natale e lentamente, anno appresso anno, i morti persero la strada che li portava nelle case dove li aspettavano, felici e svegli fino allo spàsimo, i figli o i figli dei figli. Peccato. Avevamo perduto la possibilità di toccare con mano, materialmente, quel filo che lega la nostra storia personale a quella di chi ci aveva preceduto e “stampato”, come in questi ultimi anni ci hanno spiegato gli scienziati. Mentre oggi quel filo lo si può indovinare solo attraverso un microscopio fantascientifico. E così diventiamo più poveri: Montaigne ha scritto che la meditazione sulla morte è meditazione sulla libertà, perché chi ha appreso a morire ha disimparato a servire.
Questi racconti sono tratti da persone anziane Calabresi che nella tradizione del giorno dei morti, preceduto dai Santi volevano proporre una festività intensa sia sotto l'aspetto culinario che quello speculativo inteso ai regali ai giochi ai giocattoli che man mano con gli anni si sono poi trasformati in abbigliamento per necessità tipo scarpe, pantaloni, vestito cappotto ect ect.


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